La domanda di fondo della filosofia antica è quella che porta alla comprensione dell' "intero"
La domanda con cui la filosofia greca è nata e che ha portato avanti fino al suo termine investe la totalità delle cose, tutto il reale, o, per dirla con termine tecnico, l’«intero».
Ma che cosa s’intende con tale domanda? La totalità delle cose e tutto il reale non significano l’insieme di tutte le singole cose e realtà particolari, nel senso che l’intero non è mera somma di parti. La domanda sull’intero non implica un approccio quantitativo alla realtà, bensì una particolare ottica che ha uno specifico carattere qualitativo, ossia una peculiare angolazione mediante la quale si cerca di vedere tutte le cose in funzione di un principio o di principi primi da cui derivano, e quindi in un senso globale che ne fa appunto un insieme significativo.
È chiaro, di conseguenza, il significato che viene ad assumere l’affermazione «il filosofo aspira a conoscere tutte le cose per quanto è possibile». Aristotele nellaMetafisica (I, 2) ce lo spiega molto bene precisando che il conoscere tutte le cose vuol dire conoscere l’«universale» in cui rientrano tutti i particolari. E l’universale inteso in questo senso non significa l’universale di carattere logico, che è una astrazione concettuale, ma un Principio primo e supremo, dal quale dipendono tutte le cose, dal quale sono sorrette e al quale tendono.
Pertanto, la domanda sull’intero viene a coincidere con la domanda sul Principio imprincipiato e fondante, e quindi unificante tutte le cose. Potremmo anche dire che la domanda sull’intero coincide con la domanda sul perché ultimo di tutte le cose, dal momento che è proprio questo perché ultimo che, nella misura in cui spiega tutte quante le cose, costituisce l’orizzonte della comprensione delle cose medesime. È evidente che l’atteggiamento della filosofia nei confronti della realtà è antitetico rispetto a quello delle scienze particolari. Infatti, queste per definizione, queste assumono come oggetto d’indagine solamente una parte specifica della realtà. Pertanto la filosofia si oppone, o meglio gerarchicamente si pone al di sopra delle scienze particolari, per la stessa ragione per la quale il tutto si oppone alle parti, o meglio gerarchicamente si pone al di sopra di esse. È questo il carattere di fondo che dà al pensiero greco quello spessore metafisico veramente emblematico. Aristotele, come noto, ha espresso questo concetto in maniera paradigmatica: «C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere (=l’intero) e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle altre scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere in universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte» (Metafisica, IV, 1).
Tutta quanta la filosofia greca, prima e dopo Aristotele, per ben dodici secoli ha ribadito senza eccezione questo concetto essenziale: il filosofo è filosofo solo se sa guardare il tutto, l’intero dell’essere. Platone afferma addirittura nella maniera più forte che il filosofo deve avere una mente che possieda «la contemplazione di tutto il tempo di tutto l’essere» (Repubblica, VI, 486 A).
Reale G., filosofia antica, Milano, Jaca Book, 1992, pp. 11 – 13.
Ma che cosa s’intende con tale domanda? La totalità delle cose e tutto il reale non significano l’insieme di tutte le singole cose e realtà particolari, nel senso che l’intero non è mera somma di parti. La domanda sull’intero non implica un approccio quantitativo alla realtà, bensì una particolare ottica che ha uno specifico carattere qualitativo, ossia una peculiare angolazione mediante la quale si cerca di vedere tutte le cose in funzione di un principio o di principi primi da cui derivano, e quindi in un senso globale che ne fa appunto un insieme significativo.
È chiaro, di conseguenza, il significato che viene ad assumere l’affermazione «il filosofo aspira a conoscere tutte le cose per quanto è possibile». Aristotele nellaMetafisica (I, 2) ce lo spiega molto bene precisando che il conoscere tutte le cose vuol dire conoscere l’«universale» in cui rientrano tutti i particolari. E l’universale inteso in questo senso non significa l’universale di carattere logico, che è una astrazione concettuale, ma un Principio primo e supremo, dal quale dipendono tutte le cose, dal quale sono sorrette e al quale tendono.
Pertanto, la domanda sull’intero viene a coincidere con la domanda sul Principio imprincipiato e fondante, e quindi unificante tutte le cose. Potremmo anche dire che la domanda sull’intero coincide con la domanda sul perché ultimo di tutte le cose, dal momento che è proprio questo perché ultimo che, nella misura in cui spiega tutte quante le cose, costituisce l’orizzonte della comprensione delle cose medesime. È evidente che l’atteggiamento della filosofia nei confronti della realtà è antitetico rispetto a quello delle scienze particolari. Infatti, queste per definizione, queste assumono come oggetto d’indagine solamente una parte specifica della realtà. Pertanto la filosofia si oppone, o meglio gerarchicamente si pone al di sopra delle scienze particolari, per la stessa ragione per la quale il tutto si oppone alle parti, o meglio gerarchicamente si pone al di sopra di esse. È questo il carattere di fondo che dà al pensiero greco quello spessore metafisico veramente emblematico. Aristotele, come noto, ha espresso questo concetto in maniera paradigmatica: «C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere (=l’intero) e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle altre scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere in universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte» (Metafisica, IV, 1).
Tutta quanta la filosofia greca, prima e dopo Aristotele, per ben dodici secoli ha ribadito senza eccezione questo concetto essenziale: il filosofo è filosofo solo se sa guardare il tutto, l’intero dell’essere. Platone afferma addirittura nella maniera più forte che il filosofo deve avere una mente che possieda «la contemplazione di tutto il tempo di tutto l’essere» (Repubblica, VI, 486 A).
Reale G., filosofia antica, Milano, Jaca Book, 1992, pp. 11 – 13.
Socrate, Platone, Aristotele
Le scuole postaristoteliche
Il punto-chiave dei sistemi dell'età ellenistica consiste nella scoperta dell'arte di vivere
Sgombrando il terreno dai principali pregiudizi, è senz’altro possibile formulare una più corretta valutazione circa il significato delle Scuole Ellenistiche. La filosofia di queste Scuole volle essenzialmente essere – e fu in effetti – un «filosofia di vita», una filosofia che voleva insegnare l’arte di vivere, cioè non una sophia in senso aristotelico, ma una phronesis, una saggezza. Una attenta analisi strutturale delle posizioni delle varie Scuole rivela infatti una sporgenza dell’etica sull’ontologia e sulla logica, non solo di carattere «quantitativo», ma anche «qualitativo».
«Quantitativamente» l’etica sporge sulla fisica e sulla logica perché costituisce l’oggetto di maggiore interesse, mentre «qualitativamente» l’etica sporge per la novità, per la libertà rispetto alle stesse premesse logico-ontologiche e per la genialità. Le etiche dei sistemi dell’età ellenistica non derivano direttamente dai dogmi ontologici e logici che pur sono invocati come fondamenti, essenzialmente da originarie intuizioni del senso e del significato della vita. Per dirla con una terminologia moderna – come tale anacronistica, ma assai chiarificatrice se opportunamente intesa – , alla base dei sistemi ellenistici, come del resto alla base di ogni forma di filosofia intesa come arte di vivere, sta un immediato sentimento della vita, una visione della vita intuitivamente colta e poi razionalmente svolta, fondata e motivata. In termini scheleriani, diremo che il nucleo fondamentale da cui si sviluppano Cinismo, Scietticismo, Epicurismo e Stoicismo è una «intuizione emozionale dei valori».
Giovanni Reale, Dario Antisri, Storia della filosofia, Vol.II, Bompiani, pag.35.
«Quantitativamente» l’etica sporge sulla fisica e sulla logica perché costituisce l’oggetto di maggiore interesse, mentre «qualitativamente» l’etica sporge per la novità, per la libertà rispetto alle stesse premesse logico-ontologiche e per la genialità. Le etiche dei sistemi dell’età ellenistica non derivano direttamente dai dogmi ontologici e logici che pur sono invocati come fondamenti, essenzialmente da originarie intuizioni del senso e del significato della vita. Per dirla con una terminologia moderna – come tale anacronistica, ma assai chiarificatrice se opportunamente intesa – , alla base dei sistemi ellenistici, come del resto alla base di ogni forma di filosofia intesa come arte di vivere, sta un immediato sentimento della vita, una visione della vita intuitivamente colta e poi razionalmente svolta, fondata e motivata. In termini scheleriani, diremo che il nucleo fondamentale da cui si sviluppano Cinismo, Scietticismo, Epicurismo e Stoicismo è una «intuizione emozionale dei valori».
Giovanni Reale, Dario Antisri, Storia della filosofia, Vol.II, Bompiani, pag.35.
Diogene, Epicuro, Zenone
Nascita del movimento scettico con Pirrone
I fenomeni, la sospensione del giudizio e l'imperturbabilità
Le sensazioni, diceva Pirrone, sono mutevoli e soggettive; la loro verità è sempre relativa. Il ragionamento esige, perché le sue conclusioni siano vere, la verità delle sue prime premesse. Ma queste ultime non possono derivare da un altro ragionamento, perché si andrebbe, come diceva Aristotele, all’infinito. In ultima analisi bisogna dunque ricorrere sempre all’esperienza, che è però mutevole e incerta. […] Pirrone combatte le «teorie» e cioè la pretesa di definire «dogmaticamente» che le cose in se stesse siano fatte in questo modo o in un altro. Rispetto a tali questioni bisogna sempre sospendere il giudizio, ovvero applicare l’epoché (che significa appunto«sospensione del giudizio»). […] Ne risulta che l’unico atteggiamento pratico coerente con l’insormontabile ignoranza umana è l’indifferenza, l’imperturbabilità dell’animo. […] Lo scettico si attiene ai fenomeni cioè li osserva senza passioni e senza preferenze (Skepsis significa propriamente «indagine»). È da questo abito d’indifferenza che l’uomo può derivare quella calma interiore che è l’unica felicità possibile.
Carlo Sini, I filosofi e le opere, Vol. I, L’età antica e il medioevo, pag. 238-239.
Carlo Sini, I filosofi e le opere, Vol. I, L’età antica e il medioevo, pag. 238-239.
Le scuole filosofiche in epoca imperiale
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Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, Plotino
Piccolo e breve vocabolario dei termini in greco
Cliccando sull'icona con il disegno del dizionario andrai ad una pagina dove troverai alcuni tra i termini in greco a te più utili; per un buon utilizzo di questo semplice vocabolario fai attenzione alla nota in fondo pagina.
Interviste importanti
Giovanni Reale: fortune e sfortune della metafisica 18/02/1994 in Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.